giovedì 19 maggio 2011

Recensione: The Big O

THE BIG O
Titolo originale: The Big O
Regia: Kazuyoshi Katayama
Soggetto: Hajime Yatate (Kazuyoshi Katayama, Keiichi Sato)
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Keiichi Sato
Mechanical Design: Keiichi Sato
Musiche: Toshihiko Sahashi
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 26 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 1999 - 2003

 
Qual è il mistero di Paradigm City? Perché tutti i suoi abitanti non hanno alcun ricordo di quanto accaduto quarant'anni prima? Cosa sono i giganteschi robot che sporadicamente appaiono in città mettendola a ferro e fuoco? Roger Smith, professione negoziatore, con il suo lavoro si trova presto a indagarci, venendo a contatto con una realtà incredibile che cambierà per sempre la sua vita mettendola seriamente in pericolo. Fortunatamente, a proteggerlo ha dalla sua parte alleati fidati: Norman, maggiordomo tuttofare; Dorothy, ragazza cyborg dalla grande agilità, e il gigantesco, potentissimo robot da combattimento Big O...

Nel biennio 1998-1999 Sunrise trova la sua più ispirata vena artistica, tirando fuori una sfilza di opere estremamente autoriali che ben gli fanno meritare la nomea di studio d'animazione tra  i più importanti in ambito internazionale, legato non più solo alla faccia "matura" del genere robotico, ma anche alla sperimentazione in altri generi narrativi. Sono gli anni in cui escono, a distanza ravvicinata, gioiellini del livello di Brain Powerd, Gasaraki, Cowboy Bebop, Infinite Ryvius, ∀ Gundam, The Big O.

Opera avveniristica che segna davvero la cifra sperimentale Sunrise, The Big O è mystery di cifra americana filtrato da sensibilità giapponese, dove si incrociano tempi narrativi rarefatti, atmosfere tenebrose e un tangibile senso di sporcizia e degrado di derivazione noir anni 40, con robottoni giganti e personalità psicopatiche di matrice nipponica. Un ispirato connubio narrativo, enunciato da una clamorosa collaborazione produttiva - Sunrise e un colosso americano dell'intrattenimento del livello di Cartoon Network - e una opening leggendaria che rilegge il Flash Gordon's theme dei Queen, che è il primo del suo genere, seguito quasi un decennio dopo con gli adattamenti Mad House di Iron Man, X-Men e Wolverine e, per rimanere in ambito super-eroistico, con il divertente Tiger & Bunny diretto da uno degli stessi creatori del cult Sunrise. Evidentemente il sottocosmo degli eroi mascherati a stelle e strisce rappresenta forte influenza per svariate produzioni nipponiche, e anche The Big O non sfugge alla regola nonostante parli di tutt'altro, facendosi spesso accostare al Batman animato della Warner Bros per il design grafico estremamente simile e paralleli tra il protagonista-milionario Roger Smith e Bruce Wayne, tra il suo maggiordomo Norman e Alfred. Ma sono giusto affinità estetiche e poco altro. Geniale sintesi tra culture e influenze di diversi Paesi, The Big O è la personale creazione del regista Kazuyoshi Katayama e del designer Keiichi Sato, che con la sceneggiatura scritta dal rinomato Chiaki J. Konaka dà vita a una delle più affascinanti incursioni a memoria d'uomo nello steampunk.


Proprio da uno dei papà di Serial Experiments Lain deriva il problema - anche se tale termine è forse ingeneroso contando la caratura dello sceneggiatore - maggiore dell'opera, lo script così complesso e articolato da sembrare in più frangenti confusionario, privo di intermezzi leggeri per tirare il fiato e assimilare con calma le informazioni. Le indagini di Roger Smith alla scoperta della sua identità e dei segreti di Paradigm City sono pesanti da seguire: colpa di un chara design americaneggiante e quadrato - simile a quello di Batman appunto - poco incisivo e attraente, ma anche di una ostica regia che, sforzandosi di essere evocativa ed estremamente lenta come i noir che vorrebbe omaggiare, risulta facilmente letargica portando a noia, col pericolo concreto di non permettere di seguire lucidamente gli sviluppi dell'inteccio. The Big O è una di quelle opere che, similarmente a Gasaraki, presuppongono una visione a cervello attivo, ponendo tutto l'interesse dello spettacolo nella complessità della storia, non importa  a discapito di una certa freddezza generale. Un meccanismo che funziona egregiamente attestando le qualità artistiche della produzione, ma non permette di sentirsi troppo emotivamente legati a lei. Per qualche strana sinergia di forze, però, a costo di non recepire tutte le sfumature dell'intreccio, la visione è a sprazzi talmente carismatica da risollevare pienamente il giudizio.

È opera che vive di momenti estremamente suggestivi, molti dei quali per merito della magnifica colonna sonora di Toshihiko Sahashi i cui temi ora epici, ora corali, ora gregoriani, regalano fortissima intensità alle scene, sopratutto a quelle di rivelazioni importanti o della lotta tra il Big O e il robot nemico di turno, quasi sempre all'interno della città di Paradigm - a ricordare i film di Godzilla degli anni 60 - e coreografate con una cura tale da far spalancare le mascelle. Il robottone protagonista è un capolavoro del mecha design, tra i più carismatici della Storia grazie alle sue spalle gigantesche e verticali fuse nel braccio e le incredibili armi: la sua enorme stazza è glorificata dalla fisicità delle animazioni, fluide a livello di un filmone cinematografico, che rendono ogni singolo scontro, per quanto sempre breve, puro spettacolo di lamiere e viti in movimento. Aiutano a sopportare meglio la lentezza di Big O il simpatico protagonista Roger Smith, ma sopratutto le atmosfere torbide, vero marchio di fabbrica di un noir basato su lunghi silenzi, dialoghi sussurrati, tempi narrativi rarefatti e antagonisti grotteschi, inquietanti e psicopatici che ricordano non poco certi villain delle storie di Yasuhiro Imagawa. Unico, vero limite dell'opera, appunto, rimane il ritmo pachidermico. The Big O è molto, troppo registicamente raffinato, al punto da sembrare in qualche frangente di un'irritante snobberia. Lo si avverte in ogni inquadratura, nei dialoghi lentissimi, nelle animazioni spesso minimaliste quando non si tratta di scene d'azione. E la visione, a meno non sia pienamente attiva, rischia di diventare presto stancante e in alcuni punti insopportabile, perché tanta autorialità per molti è, anche giustamente, di troppo.


La valutazione finale non può prescindere da questo: The Big O è concretamente una bella serie, potenzialmente splendida, che seguita con attenzione rivela una storia intrigante e ben sviluppata e con un finale estremamente evocativo pur nella sua incompiutezza (visto il basso share registrato in Giappone dalla prima parte della storia ma il successo elevatissimo riscosso negli USA, Sunrise si fa produrre la seconda parte dagli americani, ma questa nuova "stagione" proprio stavolta non convince il suo nuovo pubblico di riferimento che decreta la mancata produzione della terza e ultima parte, portando all'abbandono di numerose sottotrame e lasciando adito a moltissime domande sulla conclusione). Finale che, negli stessi anni del Matrix cinematografico, ha il merito di riportare in auge forti cenni di cyberpunk in animazione, seppur impossibili da rivelare pena distruggere uno dei misteri più importanti della serie. Apprezzarla è un conto, viverla è però un altro: se una regia soporifera e pochissima azione non sono deterrenti, probabile chi legge l'adorerà. Altrimenti, rischia di annoiarsi non riuscendo neanche a seguirla bene. Ognuno stabilisca la sua soglia di tolleranza.

Voto: 7,5 su 10

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Ragazzi che capolavoro! Tra le altre cose il personaggio di Roger è ispirato a quel monumento di Yusaku Matsuda (il padre di Ryuhei, protagonista di Nightmare detective di tsukamoto tanto per dire) in Tantei Monogatari, film cult in Giappone e spesso preda di riadattamenti.
Che poi sarebbe la stessa icona utilizzata da Watanabe per sfornare un certo Spike Spiegel. Ma tu guarda sti giappi...
Il carciofo rosso.

P.S. Rientro tra quelli che i tempi morti non li ha neanche notati...

Jacopo Mistè ha detto...

Beato te che sei riuscito ad apprezzarlo tanto, io come avrai letto dalla rece tutt'altro che esaustiva non sono riuscito a farmi coinvolgere eccessivamente dal mondo di Big O. Per più di una volta sedotto dalla magnificenza grafica e sonora, questo sì, ma ho avuto serissimi problemi a mantenere la concentrazione per assaporare la storia e sopportare i tempi narrativi dilatati. :( Non escludo affatto di provare a riguardarmi da capo la serie tra qualche anno per darle una seconda chance, perché potenziale ne aveva molto e sono sicuro anche che è stata colpa mia che non l'ho seguita con la massima attenzione.

Belle info, grazie ;)

PS Mi piacerebbe discutere di anime con persone esperte come te, El Barto e gli altri lettori, trovate sia me che il Corà su facebook o in alternativa su msn (marcs87@hotmail.it) ;)

anteriorechiuso ha detto...

Quali tempi morti?? :)
Opera notevole, ho storto in naso solo nel finale: davvero "tosto"

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